sabato 16 gennaio 2016

LE RECENSIONI AD CAZZUM - FILM: CREED

Io non lo so cosa stia succedendo ai film ultimamente, giuro che non lo capisco. Sarà che non ci sono in mezzo, non mangio pane e pellicola a colazione e in generale non ho le basi per ragionarci su, però mi fa davvero strano vedere un balzo di qualità mostruoso come quello osservato gioiosamente nelle sale cinematografiche da qualche mese. Di film belli ce ne sono sempre stati, questo è chiarissimo, ma mi è capitato di rado di vederne così tanti in così poco tempo. Mi è tornata una fame mostruosa di grande schermo, una voglia matta di prendere il biglietto, sedermi e fissare speranzoso davanti a me, nella consapevolezza che molto probabilmente i miei soldi sono stati spesi in modo adeguato.
Quindi sono qua, che osservo da una parte un’industria che non sa più cosa cazzo fare di nuovo e va a riesumare, anzi, dissacrare vecchi cadaveri nella speranza di fare un bel po’ di banconote sul culo dei nostalgici, e dall’altra un po’ di cervelli che, nell’occhio di un ciclone puzzolente fatto di riciclaggio e idiozia, si fanno i cavolacci loro e sfornano perle di rara bellezza. E in questo cerchio perfetto fatto di silenzio e secondi che passano sempre più lenti, mentre attorno gli elementi devastano tutto ciò che abbiamo di più caro, è arrivato anche un tizio di nome Ryan Coogler. Uno che ha deciso di metter mano a un nome che definire “leggendario” è davvero riduttivo. E io non sapevo chi fosse Ryan Coogler prima di vedere il suo Creed. Giuro, so che ha vinto premi con qualche cortometraggio solo perché Google me l’ha detto, però nell’occhio del ciclone ci è entrato accompagnato da Stallone, e se come secondo hai il buon Silvestrone non puoi essere l’ultimo arrivato. Proprio non puoi. Perché il cosiddetto “cinema di menare” (mi piacerebbe credere che moltissimi coglieranno la citazione de I 400 Calci, visto che un sito che dice tutto quel che vuole è una rarità e merita click, ma so che il mondo funziona diversamente) magari viene considerato inferiore a quello “d’autore” dalla critica, ma per noi che siamo cresciuti negli anni 90 queste sono solo gigantesche puttanate messe in giro da chi il cuore tra le esplosioni e i pugni non ce l’ha lasciato, o finge di non averlo fatto perché gli piacciono il té e i biscotti dei salotti buoni. E ok, bellissimi i film impegnati e tutto quanto, ma Schwarzy che mangia i berretti verdi a colazione e Stallone che urla “Adrianaaa” da piccolo mi hanno lasciato molto di più di un sacco di filmoni, e sono abbastanza sicuro di non esser l’unico a pensarla così.


Torniamo pertanto a Creed, che è ovviamente il cognome di Apollo Creed, e dovrebbe essere uno spin-off della serie Rocky incentrato sul figlio dello storico avversario/amico dello Stallone Italiano. Però uno spin-off non è, è più un seguito diretto, ed è uno di quei seguiti che può anche chiudere la partita, perché la parola “fine” meglio non la si poteva mettere.
Lo dico sul serio, e con la consapevolezza assoluta di quanto la saga sia degenerata dal primo episodio. Il primissimo Rocky non era solo un gran “film di menare”, era uno spaccato di America semplice ed efficace di quelli che colpiscono dritti allo stomaco, con un protagonista (Stallone, appunto) che ci credeva fortissimo e ha dimostrato a tutti quelli che lo davano per finito che sì, un italoamericano con un paio di porno brutti alle spalle e la faccia storta poteva essere un perfetto eroe delle masse. Era il sogno americano incarnato quel film, e ti restava dentro nonostante tutto, perché Silvestrone ci credeva così duro che un po’ la trasmetteva anche a te la fede.
Ragazzi, non son tanti i film sul pugliato che ti fan tornare a casa con le braccia al cielo, tirando pugni al vento e fischiettando una colonna sonora. Giusto un paio di Rocky ce la fanno, e che Creed potesse essere alla loro altezza nessuno lo credeva visto l’andazzo recente di Hollywood. Eppure Coogler ha cucinato un film che si poteva fare solo con due ingredienti: un sacco di amore per l’originale e un sacco di cervello. Due cose che son mancate al settimo episodio di Star Wars secondo me, checché ne dica il mondo.


Perché sto film è pieno di parallelismi, pieno zeppo, ma JJ dovrebbe guardarselo per capire che puoi rifarti al passato senza esserne succube. Già perché Coogler lo ama il primo film, e si vede, ma per tutto il tempo non fa altro che sussurrarti: “erano altri tempi, erano tanto belli, ma guarda cosa posso fare ora”. E te lo mostra davvero alla grande, cosa può fare ora. Può, ad esempio, mostrare un Rocky vecchio, debole e solo, che Stallone interpreta magnificamente. E si può dire tutto sulle doti da attore di Sly, ma Rocky è lui, è la sua creatura, e se lo devi far vedere verso la fine dei suoi giorni tanto vale trasmettergli tutto il carisma che ti rimane. Quindi sì, avrà pure la faccia di cemento Silvester, ma bastano quei due o tre cenni qua e là e quello sguardo che ci crede ancora a farti venire le manly tears. Viso di pietra, rivoli d’acqua che scendon dalle gote, e tu che pensi “piove”, ma in realtà sei al chiuso e stai piangendo. 
L’altra cosa che il buon Ryan Coogler può fare e mescolare il vero al falso, e mostrare una boxe più realistica sul ring, più violenta, secca e spettacolare, ma comunque lontana dagli incontri reali (che ormai sono tutta tecnica e poca sostanza il più delle volte). E li dirige proprio bene sti incontri, segue l’azione con scene lunghe e d’effetto, fa menare i pugili come se fosse uno scontro vero, ma al contempo ti fa sentire la forza di ogni cazzottone atomico con la stessa intensità con cui percepivi i pugnoni un po’ scoordinati del primissimo Rocky. Ed è bello. È proprio bello guardare un film nuovo, che ribalta un po’ tutto ma resta fedele all’originale, una storia di crescita e perdita che riesce a distanziarsi dal passato ma a trasmetterti più o meno le stesse emozioni.


E come ho detto Coogler si dimostra bravo, anzi, bravissimo a dare un tocco diverso alle scene più vicine all’originale, e molto abile a non esagerare mai, restando ancorato alla realtà. Quindi butta nel mix un protagonista facilmente irritabile, i discorsi incazzosi tra pugili pre-match, una colonna sonora che mescola musica moderna e temi che ti strizzano l’anima, e quel tocco un po’ televisivo che nel pugilato ci vuole. Trasmette i messaggi e le sensazioni di Rocky in un contesto più vivo, più credibile, più bello da vedere e con un ritmo migliore.
Hai detto cazzi.
Dunque guardatevelo sto film, rivivete per un paio d’ore buone i momenti più belli della vostra infanzia, tornate a casa, fingete di dare pugni a un avversario immaginario e metterlo K.O., e ridete sguaiatamente come rincoglioniti.

Il cinema di menare non è morto.

sabato 9 gennaio 2016

LE RECENSIONI AD CAZZUM - FILM: The Revenant

L’Oscar è una consacrazione eterna per un attore, una sorta di prova tangibile e gloriosa di aver toccato l’apice della recitazione. Il bello è che questa sorta di postulato sembra essersi marchiato a fuoco nel cervello della gente, anche se negli anni è capitato più volte che l’omino dorato finisse nelle mani di brocchi immeritevoli o produzioni non così brillanti.
Leonardo, sta minchia di statuetta, non l’ha vinta.
È strano, perché Di Caprio è un attore eccezionale, uno di quei mattatori che quando decidono di metterci impegno possono trascinare il più stanco dei film verso il traguardo ove deve arrivare, anche nella più completa solitudine. È ancor più strambo peraltro se si considera che il buon Leo l’impegno ce lo mette sempre, ma proprio sempre, come se ogni pellicola fosse una sfida contro sé stesso, un combattimento con un suo alter ego passato che va ASSOLUTAMENTE sconfitto.
Per diventare più bravo.
Per diventare più attore.
Perché lo spettro del regazzino acchiappafiga di Titanic ormai lo hai distanziato così tanto che non si vede più, e vuoi essere sicuro di non vederlo mai più. 
Però la statuetta stocazzo. Non gliela danno, e anche se a volerla veder tutta non ha mai avuto sfidanti così inferiori da doversela assicurare per forza, la cosa gli rode fortissimo. E specialmente tale furore sacro lo si nota nell’ultima opera di Inarritu, The Revenant. Perché alla domanda “uccideresti per un Oscar?” molti attori risponderebbero sì, ma al quesito “ti ammazzeresti per un Oscar?” l’unico ad annuire probabilmente sarebbe proprio Leonardo, e in questo film pare volerlo dimostrare ogni dieci minuti.
Quindi perdio, dategli sta statuetta, che se no finisce che perdiamo uno dei pochi attori veramente bravi che ci sono in circolazione.


Ma parliamo del film, The Revenant appunto, che è una di quelle pellicole praticamente obbligate ad appoggiarsi su attori e registi, poiché costruite su una trama fin troppo semplice. Si tratta in parole povere della storia di Hugh Glass, un leggendario esploratore dell’ottocento noto principalmente per essere sopravvissuto all’attacco di un orso. Il povero Glass aveva beccato un Grizzly con due cuccioli ed era riuscito ad ucciderlo prima di venir ferito mortalmente, ma vista l’entità dei danni e le scarse probabilità di sopravvivenza i due compagni che dovevano tenerlo d’occhio fino alla dipartita lo avevano abbandonato, fregandogli armi e provviste. Lui in tutta risposta è riuscito a riprendersi, si è nutrito di bacche e carcasse per settimane, ed è tornato al forte per vendicarsi dei simpaticoni che lo avevano lasciato lì a morire.
Non è che sia moltissimo su cui costruire, ma Inarritu è un uomo furbo e sa che bastano qualche modifica alla leggenda e un po’ di cervello per rendere un film potenzialmente banalissimo uno spettacolo. Quindi la storia l’ha un po’ rimaneggiata, trasformando Glass in un personaggio emarginato con tanto di figlio indiano meticcio al seguito, e inserendolo in una situazione ben più tesa e problematica di quella dove il fattaccio era avvenuto realmente. La Louisiana di The Revenant è infatti sì un luogo freddo, selvaggio e inospitale, ma è anche un campo di battaglia, dove gli indiani sono ancora una minaccia costante e la morte arriva all’improvviso. Glass è un personaggio rispettato per la sua abilità, e risulta indispensabile alla squadra di coloni di cui fa parte per tornare al campo base dopo un brutale attacco dei pellerossa. Così, quando l’attacco dell’orso arriva, sono sufficienti la presenza del figlio e una curata caratterizzazione dei due compagni che lo abbandonano a dare tutta un’altra carica drammatica alla situazione.
Cosa succede esattamente è intuibile, anche se non sto a spoilerarvelo. Voi sappiate solo che il carico della cattiveria se lo mette in spalla tutto Tom Hardy nei panni del rozzo e pragmatico Fitzgerald, e che riesce davvero bene a farsi odiare, nonostante una parlata davanti a cui uno con una decina di stracci in bocca potrebbe tranquillamente passare per Ivo de Palma (il film lo ho visto in inglese, se in Italiano Hardy sia altrettanto incomprensibile non mi è dato saperlo).


Una volta date le sue belle pennellate col pene (perché per fare una grande parete ci vuole un grande pennellen), Inarritu si è dunque spianato la strada per fare quello che gli riesce meglio: i piani sequenza.
E io non sono un fan dei piani sequenza, giuro, non mi fanno impazzire, li ritengo belli solo quando inseriti sensatamente in una regia solida. Però Inarritu te li fa piacere a forza, te li butta giù con un imbuto finché non sei sazio, e alla fine del film ti rendi conto che sto pasto con cui ti hanno ingozzato ti è piaciuto, e pure parecchio. Questo perché li usa da dio, vaga nell’azione come uno spettro, segue i momenti con una naturalezza quasi inquietante, e costruisce attorno ai movimenti della telecamera delle scene assolutamente incredibili. Tipo l’attacco degli indiani iniziale, che grazie alla regia inchioda gli occhi dello spettatore allo schermo e diventa immediatamente memorabile. O ancora la scena dell’attacco dell’orso, dove Inarritu si sofferma molto di più sulla sofferenza di Di Caprio, e riesce mantenere l’inquadratura sempre nel posto più adatto per rendere tutto il più brutale e cristallino possibile, senza però sacrificare quello scorrere naturale che contraddistingue tutto il film.
Quell’Oscar preso con Birdman il buon Alejandro insomma se lo merita tutto, e a fare il resto ci pensano due cosucce non da poco: la musica di Ryuichi Sakamoto (se non sapete chi è avete privato le vostre orecchie di tante cose bellissime, e provo pietà per voi), e il succitato Leonardone, che tira fuori dal taschino una delle interpretazioni più sublimi che abbia mai visto.


Oh, Di Caprio nel film parla a malapena. Già lo presentano come un uomo di poche parole, quando poi si ferisce alla gola non ne proferisce più mezza per l’ottanta per cento della pellicola, se non in un mugolio rauco di disperazione. Eppure riesce a trasmettere tutto il dolore del suo personaggio, sembra veramente ferito, zoppicante e con mezzo corpo in cancrena. Ogni suo muscolo facciale è un concentrato di furia, tristezza e sofferenza. Lo fissi estasiato per tutta la pellicola, due ore e trenta di film in cui vuoi capire come farà ad arrivare a quel fottuto forte e a vendicarsi di quel cane di Fitzgerald, e in cui attraverso lui osservi una Louisiana dai paesaggi meravigliosi, ma popolata in larga parte da gente che ormai ha deciso che la gentilezza è solo un modo stupido per morire. I pochi che ancora si attaccano alla loro umanità rappresentano l’unico barlume di speranza del film assieme alla tenacia incrollabile di Glass. Ed è giusto chiamarlo Glass, perché Di Caprio non fa come buona parte degli attori italiani, che hanno il vizio maledetto di interpretare se stessi invece di un personaggio, ma entra proprio nella testa del suo alter ego, DIVENTA lui. Ed è lì che inizi a preoccuparti, perché lo vedi mangiare pesce crudo e carne insanguinata appena tagliata da una carcassa, lo vedi dormire in un cadavere di cavallo appena squartato e tremare al gelo. Roba che Bear Grylls gli fa una sega, e ti chiedi chi cazzo glielo abbia fatto fare. Costantemente.
Poi lo guardi negli occhi, vedi il fuoco, e capisci.

DATEGLI. LA. STATUETTA.

venerdì 1 gennaio 2016

LE RECENSIONI AD CAZZUM - LIBRI: American Gods di Neil Gaiman

Bene, è l’inizio dell’anno e scrivo. Scrivo perché ne ho bisogno, è un modo come un altro di svuotare la mente e concentrarmi su cose che non sono “il presente” e in questo periodo mi serve più che mai.
Ho deciso di scrivere un’altra recensione ad cazzum, su un libro che ho letto recentemente ed è riuscito a staccarmi dalla realtà quel tanto che basta a farmi star bene (cristo santo, sembro Kylo Re... ahem, volevo dire un emo qualsiasi, meglio finirla). Un libro che merita davvero di esser letto. Da chiunque, non solo da coglioni depressi con la barba come il sottoscritto. Ah, come al solito SPOILER ALERT.


Il libro in questione è American Gods di Neil Gaiman, e se non sapete chi è Neil Gaiman vuol dire che non avete mai letto Sandman. Lo capisco, non è che dalle nostre parti lo abbiano letto in tantissimi, però tra i fumetti c’è davvero poca roba di quel livello lì, quindi se vi piacciono i paginoni disegnati con le nuvolette dei dialoghi fate un favore al vostro io interiore e tentate di recuperarlo. Ne vale davvero la pena, basta superare indenni l’inizio un po’ fiacco.
Ma sto divagando, che poi è la cosa che faccio sempre, quindi torniamo in carreggiata parlando, appunto, di American Gods. È una carreggiata di quelle belle accoglienti, dove si guida tranquilli, con curve che quasi ti cullano e senza rompicoglioni attorno. Sì insomma, è un libro della madonna. Non che ci fosse dubbio alcuno sulla qualità del testo, almeno per chi Sandman lo ha letto, però un libro è una cosa diversa da un fumetto e fa piacere notare come Gaiman sia uno dei pochi autori in grado di destreggiarsi senza troppi sforzi in varie forme di scrittura. Il bello è che American Gods non è nemmeno facile da inserire in un genere preciso: è un fantasy moderno, chiaramente, ma è ricchissimo di mitologia e finemente ricercato, al punto da non poter essere strizzato nelle spesso sottilissime mura della generalizzazione. Si tratta, in larga parte, di uno spaccato dell’America e della sua storia visto con l’occhio neutrale di uno che arriva dall’esterno ma ha poi scelto di vivere lì. Una neutralità che a Gaiman dà modo di descrivere anche il peggio degli States, specie quando ci si avvicina al loro non proprio luminosissimo passato.
D’altronde la premessa del libro è terreno fertile per un racconto così multiforme. Gli dei, in American Gods, sono reali. Credere in una divinità e venerarla la porta ad esistere e non c’è posto al mondo dove se ne trovano di più dell’America, un melting pot di popolazioni che hanno portato creature ancestrali dall’Africa, figure mitologiche dall’est Europa, guardiani dell’oltretomba dall’Egitto e quant’altro. L’America è però anche un posto pessimo per gli dei, un luogo dove difficilmente possono prosperare, visto il consumismo imperante e le deboli radici di chi gli dà forma. Gaiman gioca a meraviglia con questa situazione, dando vita a un mondo vicino, anzi, vicinissimo a quello reale, ma popolato da un numero smodato di personaggi brillanti, le cui vicende ruotano attorno al protagonista, Shadow.
Ora, per quanto mi riguarda, già riuscire a dare una dignità a un personaggio che va in giro dicendo di chiamarsi “ombra” è un’impresa che ben pochi sono in grado di compiere. Gaiman vi riesce, e rende persino Shadow un protagonista tra i più riusciti che io abbia mai visto. Shadow è perfetto per questo libro: è un uomo tranquillo, che ha avuto guai con la legge e a cui crolla il mondo addosso nel giorno della redenzione, proprio quando viene rilasciato dalla prigione in cui si trova per una rapina andata malamente. Un bestione che sa badare a sé stesso, eppure emana di rado un’aura minacciosa e manifesta davvero ben poche emozioni mentre vaga per gli Stati Uniti. Come viene descritto a un certo punto durante il libro, Shadow sembra più “un buco a forma di uomo che un essere vivente”, è un personaggio silenzioso, misterioso, che si ritrova catapultato negli eventi a causa di segreti ben più grandi di quanto prevedibile, eppure è davvero difficile non tifare per lui in mezzo a tutte le tragedie che gli capitano e davanti alla sua capacità quasi (e dico “quasi”) incrollabile di mantenere un comportamento gentile e dignitoso anche davanti a situazioni terribili. Shadow è il compagno ideale del lettore, un contraltare riuscitissimo a qualunque personaggio inserito nella novella, indipendentemente da quanto il comprimario sia folle o caricaturale. E di personaggi fuori di testa ce ne sono in sto libro, oh se ce ne sono...


Come ho detto, Gaiman ha fatto le sue ricerche ed ha tirato fuori divinità di ogni tipo dal cappello, partendo dal carismatico Mr.Wednesday, in realtà un noto dio Nordico che mette tutto in moto. Non si è limitato però a riempire la trama di personalità indimenticabili, e ha pensato bene di spezzare le vicende principali con flashback e sequenze oniriche di rara qualità. Non si infilano a forza nella narrazione, non disturbano chi legge, e al contempo rendono tutto più chiaro e dettagliato, donando importanti tessere del puzzle ai più attenti. Storie nella storia che non stonano, una specialità del buon Neil che gli ha permesso di mantenere scorrevole un libro di quelli davvero massicci quanto a numero di pagine.
Il risultato finale è quasi un misto tra un compendio di leggende e un gioco, uno di quei libri dove l’autore sfida per certi versi il lettore a riconoscere gli dei e le storie mitologiche che inserisce nelle sue pagine. E sia chiaro, finché si tratta di divinità egizie è ancora ancora facile orientarsi, ma poi iniziano ad apparire dei davvero oscuri e sconosciuti ai più, ed è un gioco mentale davvero curioso il cercare di intuire chi è chi mentre si avanza tra i capitoli. E tutta sta bontà, non bastasse, si regge su una storia di quelle che filano via come il buon vino, strutturata da dio (HA! Ok mi sotterro),  e rafforzata da un paio di colpi di scena che sono sì intuibili, ma dannatamente ben pensati e infilati nel mix, con quel giusto quantitativo di indizi in sottofondo per non rovinare la sorpresa ma al contempo tenere il lettore sulle spine. C’è anche la morale, o “le” morali, nascoste tra le pieghe della storia e le “nuove” divinità nate dalla società odierna. In parole povere, c’è tutto quello che dovreste volere da un gran bel libro, e proprio questo è American Gods, un gran bel libro, pensato bene, scritto meglio, e chiuso alla perfezione. Piccolo consiglio prima di comprarlo a scatola chiusa: tenete a mente che è anche molto maturo, che al suo interno non mancano momenti piuttosto crudi (dove per “crudo” intendo il livello “uomo divorato da una vagina magica”, non scherzo) e che persone molto religiose potrebbero urlare “alla blasfemia” ogni tot pagine. Uh, considerate anche che lo ho letto in inglese e che quindi mi riesce difficile valutare se la traduzione italiana sia all’altezza o meno del testo originale, ma anche sticazzi, dubito che si sia imbruttito poi molto con il passaggio al nostro bell’idioma.


Da leggere. Tipo ora. Che se no siete brutte persone. E si spera che non lo stuprino troppo con l’arrivo in tv, visto che stanno lavorando su una serie televisiva dedicata. Ma che dico... ovvio che manderanno tutto a puttane. Motivo in più per leggere il libro.

giovedì 24 dicembre 2015

LE RECENSIONI AD CAZZUM - FILM: Star Wars il Risveglio della Forza

SPOILER. GIGASPOILER. Poi non dite che non vi avevo avvertito, ostrega.

Io di lavoro faccio il critico. In generale, poi, faccio il critico. Sì insomma, sono uno che critica. Sempre. Uno scassaminchia nell'anima, detta terra terra, aria aria, acqua acqua. Non ci posso far niente, è na roba genetica, ce l'ho dentro e devo farlo con tutto in quasi ogni momento. E finché lo faccio di roba che conosco (vedere alla voce "videogiochi") non temo niente, perché cavalco le argomentazioni come se poggiassi il culo su un T-Rex a reazione corazzato in una landa di erbivori. Fuori da lì sono un bel po' più spaesato... ma vuoi per il fatto che ne ho viste tante, vuoi per la tendenza dell'umanità tutta a parlare a vanvera, capita spessissimo che anche io percepisca una poderosa spinta a dire la mia su cose che mi stanno parecchio a cuore. Anche se magari non so una sega di quel di cui si parla, anche se c'è il concreto rischio che qui, invece del mio T-Rex (da me amabilmente battezzato "Ermenegildo") io mi butti in battaglia cavalcando un ciuco ubriaco col cappello. Dunque oggi recensisco un film.
Ma veniamo al punto: Guerre Stellari. Quelle due paroline lì, che hanno accompagnato la mia infanzia e un po' quella di tutti i miei coetanei o quasi. Da piccolo nerd amante dei mondi fantastici e dei videogiochi, guardare quel film lì è un'epifania, una di quelle esperienze che cambiano le connessioni dei tuoi simpatici neuroni. Poi vedi la trilogia ed è tutta una discesa fatta di spade laser, energie mistiche e fiabone con tematiche semplici ma funzionali. La fantascienza bella, quella positiva, quella che dopo una serie infinita di storie troppo tecniche, troppo ciniche, o troppo influenzate dalle droghe, se n'è uscita con il male cattivo cattivo contro il bene buono buono, perfetta per i grandi e per i piccini, e capace di starsene lì, nel cuoricino di tutti, come se arrivare in quel piccolo posto buio fosse roba da niente.
Poi sono arrivati i prequel. E lì, in quel momento angosciante lì, hanno capito tutti che il primo film Lucas lo aveva tirato un po' fuori dal cappello a caso, che poteva uscirgli un piccione e invece era arrivato un capolavorissimo, e che quando si è messo a pensarci non c'è stato proprio verso di far uscire qualcosa che fosse altrettanto pieno di cuore, istinto, e lucida "bottadeculo" (la più potente tra le energie dell'universo, quest'ultima). Ci è voluto un pochino per metabolizzarli, i prequel, anche perché quando eravamo usciti dal cinema, bisogna ammetterlo, ce li eravamo fatti piacere. Sotto sotto lo sapevamo che erano merda fumante eh, non si poteva non saperlo, ma eravamo comunque usciti col sorriso ebete di quelli che "va tutto bene, almeno è Star Wars, c'è sempre bisogno di Star Wars". E ora esce, dopo eoni, il seguito degli episodi originali, quel continuo che vuole staccarsi completamente dagli episodi uno due e tre, che vuole ridare lustro a un marchio troppo forte per sparire, perché ormai è parte della cultura nerd come nessun altro, e che vuole far ripartire la serie in pompa magna. Io lo ho visto ieri, sto capitolo VII delle meraviglie e oh, più mi guardo attorno e più vedo gli stessi fottuti sorrisi forzati di chi è uscito dalle sale dei prequel. Perché sotto sotto è impossibile non saperlo, che il film è una vaccata, ma "va tutto bene, almeno è Star Wars, c'è sempre bisogno di Star Wars".
Cominciamo va, che già con questa opinione comincio il blog alla grandissima, e mi becco sicuro una gloriosa pletora di vaffanculo. Ci sta, d'altronde l'ho detto all'inizio no? "Scassaminchia nell'anima".


La cosa più terribile del filmone di Abrams è l'inizio. E no, non fraintendetemi, l'inizio è una meraviglia, ed è proprio per quello che è tremendo, ti fa sperare. In quei trenta minuti iniziali c'è tutto il necessario: inquadrature con due palle grosse come due mongolfiere (perché JJ, se alla regia ci tiene, le tira fuori lucidate e luminosissime, le bolas), un nuovo impero ancora più cattivo, quasi ripulito dalla goffaggine involontaria dei vecchi Stormtrooper, una premessa a cui passi abbastanza sopra, ma che funziona perché avanza come dio comanda, e un cattivo che sembra proprio un Darth Vader più giovane e furioso, ma altrettanto inarrestabile. Ci sono pure i rimandi al passato, vero, ma sono quelli che piacciono, quelli un tantinello più sottili. Vedi il Trooper col lanciafiamme e ripensi agli zii di Luke, e al fatto che forse stai vedendo finalmente come agisce l'impero quando non deve mancare per forza i protagonisti coi blaster. Senti le battutine di Poe Dameron, e ce l'ha un po' di quel carisma di cui han bisogno i personaggi nuovi, anche se sono infilate lì un po' a muzzo nel dramma della situazione iniziale. E poi il droide puccioso, BB-8, che lo hanno disegnato e gestito alla perfezione per fare il C1 P8 (o R2 D2, fate vobis) della situazione ma meglio, con lo stesso ruolo del "portatore di chiavetta" che come plot point ancora ancora lo puoi accettare per far avanzare tutto verso... qualcosa.
Poi arriva il Millenium Falcon. E va tutto in vacca.
No, non inizia ad esserci "qualche errore", va proprio tutto in vacca. Arriva la narrativa brutta, quella che non si capisce bene cosa cazzo stessero pensando e perché, quella che fa male al film, fa male ai neuroni, fa male al cuore.
Davvero, sembra che quella prima mezzora sia stata calcolata da qualcuno che Guerre Stellari lo ama veramente, qualcuno che, a un certo punto, stava tentando di fare qualcosa di legato sì al passato, ma anche nuovo, con un pizzico di testicoli e magia. Poi però da dietro è arrivato un fanboy con una mazza. Un colpo secco, una corda legata stretta e una buca nel terreno. Guarda la sua vittima negli occhi, appena risvegliata e tremante: "grazie per il lavoro che hai fatto, ora ci penso io" gli dice. "Davvero, grazie, ma non c'è bisogno di coraggio qui, non è questo che vogliamo, non è questo che vogliono. Noi vogliamo le spade laser capisci, la forza per tutti, una cosa che possa continuare per sempre. Non puoi alzarla troppo l'asticella, non puoi dare davvero il massimo, essere davvero intelligente. Non è questo che vogliono, non è questo che possono tollerare, non è questo che VOGLIO. Comunque... grazie". Poi inizia a chiudere il buco con la terra.
Muore lì il film, muore sul Millenium Falcon. Un po' è pure ironico, perché vederlo nel trailer aveva riacceso un po' il fuoco di tutti, e invece ora è la tomba della pellicola.
Già, perché da lì iniziano le vaccate serie, quelle del cervello che tuona "perché?". E "le vie imperscrutabili della forza" regge pochino come scusante, perché non c'è quella concretezza voluta e obbligata dei primi capitoli, che dovevano esser semplici per necessità. Il Millenium Falcon, infilato lì, è fanservice puro, il fatto che poi, dopo 7 anni di inattività, vada come un bijoux, uno se lo fa andare bene perché lo vuole veder volare, ma che poi arrivi Han Solo all'improvviso a recuperarlo perché "si è acceso e mò lo ho trovato" inizia già a nasare di boiata, di fanservice attaccato con lo sputo. E te lo fai andar bene, te lo fai andar bene perché comunque Solo lo vuoi vedere, e perché ancora, dopo tutti questi anni, la faccia vecchia e stanca di Ford ti dice mille cose in più di quelle giovani dei novellini, che in sua presenza un po' spariscono. Poi però si esagera.
Il deus ex machina è considerato un modo pessimo di avanzare una storia, è a tutti gli effetti la risoluzione ad cazzum degli eventi. Qua lo si usa di continuo, e per mandare avanti la storia, e per inserire nel film scene "whoa".
Altro elemento narrativo brutto brutto? I parallelismi. JJ l'aveva già fatta sta cosa, la ha fatta con Star Trek 2. Prendi una sceneggiatura molto amata, rimaneggiala cambiando qualcosa e TAC, fatto il film. Ora, Il Risveglio della Forza è in realtà un film molto diverso dal primo, curatissimo, con inquadrature stratosferiche a volte e tanti momenti, appunto, "whoa", ma JJ ha fatto la stessa puttanata, è inutile girarci attorno.



La cantina, presa paro paro. La scena madre di Han Solo e Kylo Ren, che tenta di emulare il momento Luke-Vader, ma non ce la fa manco di striscio. La morte nera "grossapiùgrossa" (ultimamente Sio mi annoia terribilmente, ma qua la citazione ci sta a pennello), che dopo tutti questi anni ha ancora un cazzo di punto debole raggiungibile, che se spari lì, PROPRIO lì, KABLAMMO TUTTO. Oh, Primo Ordine, sarete pure usciti dalle ceneri dell'impero, ma magari poi potevate evitare di sniffarvele le ceneri, perché tra tutti i piani di dominio ributtarsi su una roba che è fallita malamente già due volte ma farla "bigger and better" non mi pare il più ponderato.
Che anche qui, io potevo pure accettare tutto. Accettare i parallelismi, accettare la storia ciclica dell'universo di Guerre Stellari, e la volontà di rifarsi ai classici. Andava bene tutto perché, "al diavolo, ok, è Star Wars. Evviva". Dopo però si casca proprio sulle basi, e lì basta.
I cattivi. No, dico, i cattivi. Guardateli, sono uno più patetico dell'altro. Lo ho già detto, Kylo Ren parte con la furia dell'antagonista che può rappresentare il male vero. Poi si toglie la maschera, e non perde la faccia perché Adam Driver è minaccioso quanto i Teletubbies, no, la perde perché le sue motivazioni sono deboli, perché la sua spinta al lato oscuro è ridicola. "è tutto suo nonno", dice la mammina Leia nascosta sotto ettolitri di stucco facciale, ma la sua malvagità sta tutta lì: "voglio essere Darth Vader, waaaaaaaah!".
Il lato della forza è una scelta, o almeno "dovrebbe" esserlo. Una scelta durissima, perché il lato oscuro è più facile, più attraente, ma pur sempre una scelta. Questo dramma reale è reso malissimo in Ren: sembra un tizio che il lato oscuro ce lo aveva dentro geneticamente, uno che aveva i poster di Vader in camera da piccolo manco fosse il cantante dei Cure e ha deciso di dannarsi l'anima per una questione di ammirazione. Se c'è di più, nel film non si capisce, i dialoghi non lo rendono degnamente, il dramma interiore non sembra avere alcun peso, e il culmine del tutto è di una prevedibilità e piattezza indescrivibili (Han Solo muore come un coglione, vedete voi).
Non puoi prenderlo sul serio neanche dopo quell'atto orribile, non riesci a vederlo come la minaccia numero uno, e lì, se la scusa era quella di volerlo rendere come un sith adolescente e in pieno addestramento, dovevano subentrare gli altri cattivi a supportarlo.
Che però fanno cagare.
No dai, Captain Phasma? Ho goduto come un riccio a pensare a un capitano Stormtrooper interpretato da Gwendolin Christie: invece la piazzano nel posto giusto al momento giusto, Chewie la placca, le fa abbassare gli scudi e poi via, in un cassonetto. Memorabile eh? Il generale in capo del primo Ordine? Come fai a prenderlo sul serio con quell'espressività lì? e poi Snoke, Snouk, Snoopy, come cacchio preferite chiamarlo. Lo presentano come nuovo sith supremo cattivone, e non ha NIENTE, di memorabile. Non un dialogo, non una caratteristica. Alla fine è un enorme ologramma di un tizio consumato dal lato oscuro, che infatti pare uno zombie. C'era sotto chi a far lui? Serkis? Come hai fatto a non sfruttarlo a dovere Serkis, che ti rende espressivo pure un gorilla in cg?!?
Non posso prendere seriamente un Guerre Stellari con dei cattivi così, non ce la faccio a vederci il male in sta banda di scapestrati. C'è una scena con i Trooper che vedono Ren in pieno "momento incazzo", pigliano e si girano. Scenetta umoristica alla film Marvel sui cattivi. In uno Star Wars. L'ironia. Sui cattivi. In uno Star Wars. Qua è proprio sbagliare le basi. E le spade laser? I parallelismi col bushido di stocazzo? No dai, qua l'arma chiama Rey (che è chiaramente la figlia di Luke Skywalker, e si capisce dopo 0,2 secondi dalla sua apparizione) con la forza. Lei la piglia, si spaventa, e poi arriva Finn che la usa come se fosse niente per mezzo film. Kyle Katarn almeno lo diceva: "non sono uno Jedi, sono uno che va in giro con una spada laser", solo che non era così. Qua accade davvero, uno gira con la spada laser a casaccio per un pezzo, e la usa pure benino nello scontro finale.
E anche la forza, la dannatissima forza. Ok JJ, lo abbiamo capito, vuoi far capire a tutti che la storia dei Midiclorian è una cazzata, ma Rey che tira fuori un Jedi Mind Trick dal buco del culo senza preparazione no, dai. Davvero, è troppo. Sì ok, la forza scorre potente in lei, la percepisce, la può usare. Ma non ha avuto mica quell'evoluzione lì Luke nell'uso della forza! Nemmeno Anakin, che Lucas aveva reso "Gesù 2.0". No dico, Gesù 2.0 i Jedi Mind Trick non li pullava dal buco del culo, Rey sì. Lo cogli l'errore JJ? No eh, il tizio di là continua a coprire con la terra la buca eh? Porca vacca.



Questo è quello che non va nel film. La narrativa brutta, le basi buttate al vento, i dialoghi sciatti, il fanservice attaccato con lo sputo perché "lo volevate", le palle inesistenti, l'intelligenza pure, le scene cartacarbone che non erano necessarie. Sono cose a cui si poteva passare sopra (e non erano in numero così smodato) ai tempi della prima trilogia, quando Star Wars era davvero magico e meraviglioso, e tutti lo amavano. Ora però è il 2015, lo potevate far continuare con criterio, col cervello, con le palle. NON LO AVETE FATTO.
E sia chiaro, io comunque lo amo Star Wars. E guarderò il capitolo VIII, e guarderò anche la chiusura. Perché quei primi trenta minuti lì mi permettono di avere ancora un milligrammo di speranza per i capitoli dopo. Perché i momenti di bambinesca felicità, tra le vaccate, li ho trovati. Perché senza il fanservice obbligato lo script lo puoi ancora salvare, e perché Luke alla fine un po' ti fa sobbalzare l'anima.
Ah no, aspetta, chi è il regista dell'episodio 9? "Colin Trevorow, già confermato".
Ah.
DIO PO%$&!